Che fine ha fatto il vino da tavola?
Che fine ha fatto il vino da tavola? Sparito dalle statistiche che parlano solo di vini Dop e Igp e penalizzato dalle guide, da molti è considerato un vino scadente contrariamente a quanto ne pensano i consumatori anglo-americani.
Che fine ha fatto il vino da tavola?

Sparito dalle statistiche che parlano solo di vini Dop e Igp e penalizzato dalle guide, da molti è considerato un vino scadente contrariamente a quanto ne pensano i consumatori anglo-americani. E invece, soprattutto in tempi di crisi, potrebbe avere un ruolo importante come vino della quotidianità: dal Trentino Alto Adige alla Sicilia non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Che fine ha fatto il cosiddetto “vino da tavola” o, meglio, della quotidianità? Se lo è chiesto Alessandro Regoli, direttore di WineNews, dopo aver analizzato i recenti dati dell’Istat. I motivi sono diversi: questioni economiche, salutismo, cambiamento degli stili di vita, campagne contro l’alcolismo. Su 30 milioni di persone solo un italiano adulto su due consuma vino ai pasti e solo uno su tre beve almeno un bicchiere di vino ogni giorno. Non è che la causa sia anche e soprattutto perchè è sparito il cosiddetto “vino da tavola”?
Sta di fatto che non se ne fa menzione nemmeno a livello statistico, visto che (citiamo “Cantina Italia”, il bollettino che fotografa la situazione delle giacenze) il 56,3% del vino incantinato è Dop (denominazione d’origine protetta), il 25,2% Igp (Indicazione geografica protetta), i vini varietali costituiscono appena l’1,5% del totale, mentre il 17,0% è rappresentato genericamente da altri vini.
Quel pregiudizio sul vino da tavola, sinonimo di vino scadente

L’espressione “vino da tavola” o “vino generico” in Italia, tra gli addetti ai lavori (ma non solo) è diventata quasi dispregiativa e sinonimo di vino scadente a differenza, per esempio, della percezione che hanno di questi vini i consumatori anglo-americani. In questi Paesi l’espressione “table wine” indica tutti i vini che non sono spumanti o fortificati.
Eppure, quella del vino da tavola, o generico, è una categoria che, in primis, dovrebbe rappresentare la base della piramide qualitativa italiana, se valorizzata ed anche normata meglio di quanto non sia oggi, e poi potrebbe essere una tipologia di vini di qualità accessibile a tutti, utile a presidiare la quotidianità, appunto, e che servirebbe ai produttori anche per esprimere la propria creatività, potendo, però, comunicare bene quello che fanno.
Rivedere il disciplinare che consente delle rese produttive esagerate

In Italia va detto che, oltre alla comunicazione, anche la normativa sulle etichette penalizza il vino da tavola.
WineNews ha raccolto la riflessione di molti produttori di vino italiano, piccoli e grandi, artigiani e “industriali”, che compongono il variegato mosaico del vino italiano.
Un settore fondamentale non solo per l’economia, ma anche per il valore simbolico e culturale che il vino rappresenta, dal Trentino Alto Adige alla Sicilia, dal Marche alla Toscana, e per il grande lavoro che i viticoltori fanno per la tutela del paesaggio del Belpaese. Il settore, ora che il mercato non tira più come un tempo, deve fare i conti con le rese produttive.
E’ questo il tema centrale, perché se i vini Doc, Docg e Igp hanno dei limiti circoscritti e fissati dai disciplinari di produzione, per i vini senza indicazione geografica il massimale è di 300 quintali per ettaro che può, con deroghe regionali, arrivare fino a 400. Un’esagerazione secondo molti. Angelo Gaja in primis – lo abbiamo scritto recentemente – propone di abbassare drasticamente questo limite produttivo.
Da rivedere le indicazioni generiche “Vino Rosso” e “Vino Bianco”
Ma al di là di questo aspetto pur importante, produrre vini generici, secondo alcuni, ad oggi è penalizzante da un punto di vista normativo comunicativo. Per esempio, sebbene i vini generici si possano produrre anche con varietà autoctone, annata e vitigno – che sono elementi importanti per raccontare e scegliere un vino – possono essere indicati solo per quelli ottenuti da varietà internazionali, come per esempio Merlot o Cabernet Sauvignon, mentre per gli altri né l’una (annata) e né l’altro (vitigno).
Inoltre, oltre a questa differenza che in qualche modo discrimina chi sceglie un vitigno rispetto ad un altro nella stessa categoria di prodotto, è da rivedere anche la norma che prevede che in etichetta le menzioni che debbano essere evidenziate graficamente siano quelle generiche di “Vino Rosso” o “Vino Bianco”.
Tutelare la piramide qualitativa non significa penalizzare i vini da tavola
La questione, ovviamente, è delicata, e chiama in campo un impianto normativo complicatissimo come quello del vino, che risponde a norme europee, italiane, regionali, a disciplinari locali e, a volte, va detto, a logiche di “campanile” o di categoria, difficilmente comprensibili ai consumatori. Perché se un produttore fa un buon vino senza denominazione, con un vitigno storico del suo territorio, per esempio, non può nominare quel vitigno in etichetta se non rientra tra le Dop o Igp.
Da più parti, insomma, si avverte l’esigenza di una riflessione su quello che “fu” il vino da tavola. Tenendo ben presente che è sì vero che il vino da tavola rappresenta il gradino più basso della piramide qualitativa produttiva (con al vertice le Docg, poi le Doc ed infine le Igp, che, in ogni caso, sono primariamente garanzie dell’origine dei prodotti e non della loro bontà tout court, ricordando che, in alcuni casi, la materia prima per i vini Igp, peraltro, può essere presa da fuori regione, o dalla zona di produzione, con un massimo del 15%), ma che non per questo va svilito.
Anzi, viceversa, andrebbe valorizzato in modo corretto, con un progetto organico e di visione che, ovviamente, non è semplice da calibrare e da realizzare. E che riguarderebbe, oggi, dati alla mano, quasi 1 litro di vino su 5 di quelli prodotti in Italia.
In alto i calici. Prosit! (GIUSEPPE CASAGRANDE)
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